mercoledì 4 dicembre 2013

Verso Guatemala City


Un tipo alto, magro e brizzolato si muove freneticamente urlando “GuateGuate” indicando un autobus. Mi avvicino a lui e chiedo se l’autobus va a Città del Guatemala. La risposta è affermativa. Prende il mio zaino e lo carica sul tetto preoccupandosi di legarlo e subito dopo mi fa il biglietto.   Mi conferma quasi sette ore di viaggio.
Salgo e mi siedo di nuovo vicino al finestrino. Scelta quanto mai felice perché da lì potrò osservare il paesaggio.
Altri viaggiatori stanno occupando gli altri posti.L’autobus non è ancora pieno ma si parte. Non c’è un orario preciso. La precisione europea qui svanisce.
La strada è sterrata, le sospensioni non esistono. Arriverò dopo 7 ore con le ossa indolenzite. Eros Ramazzotti che canta in spagnolo riempie subito l’atmosfera.
Incontriamo diversi villaggi sperduti nei boschi da dove scendono i contadini. Stanno sul ciglio della strada e se trovano posto salgono sull’autobus,riempiendolo all’inverosimile. Il bigliettaio, il tipo di prima che ha caricato il mio zaino, fatica a passare tra i passeggeri per reclamare il biglietto. Ma nessuno si lamenta. I contadini guatemaltechi sono le persone più tranquille che abbia mai conosciuto. Si animano solo ai crocevia quando l’autobus si ferma per scaricare e caricare altra gente. Dei venditori improvvisati salgono per quei pochi minuti sufficienti per offrire alimenti e bevande.
Ma dopo qualche ora di viaggio, neanche la musica non anima più nessuno. Alcuni passeggeri si sono addormentati. Io resto vigile. Mi piace osservare la strada che corre lungo uno strapiombo. I guardrail qui non esistono. Una certa inquietudine mi assale ma poi mi dico che mi trovo in uno dei paesi più emozionanti al mondo e niente di brutto mi potrà accadere. Sono già successe cose tremende qui negli anni passati. Il Guatemala ha ora bisogno di tranquillità e serenità.
Mi guardo intorno ed osservo i visi dei contadini: sono visi millenari che portano su di sé le tracce di un passato glorioso. I tratti spigolosi rendono l’idea di un popolo che non ha mai rinunciato alla propria dignità nonostante i soprusi che ha dovuto subire.
Fa caldo. Ovviamente l’aria condizionata non esiste sull’autobus, uno scuolabus americano sbarcato quidopo essere stato dismesso dagli Stati Uniti. Ho sentito dire che il Messico è la pattumiera del Nord America, nemmeno il Guatemala scherza. Eppure è tutto pulito e a posto. I campi coltivati a maisrendono il paesaggio ordinato e gli alberi da frutta lo colorano.
L’autobus prosegue velocemente in mezzo alle montagne. L’autista parla e scherza con il bigliettaio, sempre più magro e brizzolato. Al prossimo crocevia, mi dice, dovrò scendere e cambiare autobus. Questo va dritto a Quetzaltenango. Quello che prenderò io andrà a Città del Guatemala.
Il trasbordo è veloce ed efficiente. Il bigliettaio sale sul tetto dell’autobus e mi dà, anzi mi lancia, lo zaino. Ed io salgo sull’altro che mi sta aspettando. Qui non ci sono più turisti ma gente del luogo che va in città. Stesse facce, stessi visi. I contadini sono un po’ più eleganti: gli uomini in pantaloni scuri e camicia bianca, le donne in gonne colorate.
La strada migliora velocemente e si comincia a vedere l’asfalto. Niente più scossoni. Oddio, mi sbagliavo.
Un contadino, appisolato sulla mia spalla, si sveglia ad un sobbalzo. Si guarda intorno un po’ stranitoMichiede timidamente da dove vengo. Gli rispondo “Dall’Italia”. “E te ne vai sola per il Guatemala?”, mi chiede. Ed io “Sì, sola”.

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