domenica 29 dicembre 2013

Vita da cani

"Perché mi guardi? Sono bello, vero? Il mio padrone mi ha fatto un bagno profumato e mi ha asciugato con il phon. Ha usato anche una spazzola morbida. Sono bello, sì ma non sento più gli odori. Tutto quel bagnoschiuma non mi ha fatto bene. Ma chi lo spiega al mio padrone? Lui è contento. Ed io dovrei esserlo per lui. Ma lui non capisce."

domenica 8 dicembre 2013

Inverno

Il generale inverno è arrivato
E con il manto congelato
La terra, l'erba e la natura
Ha addormentato con bravura.

Sotto il terreno ormai indurito
Il ghiro si è felicemente assopito
Mentre la talpa, cieca e guardinga,
Cerca una tana più solinga.

......

mercoledì 4 dicembre 2013

Verso Guatemala City


Un tipo alto, magro e brizzolato si muove freneticamente urlando “GuateGuate” indicando un autobus. Mi avvicino a lui e chiedo se l’autobus va a Città del Guatemala. La risposta è affermativa. Prende il mio zaino e lo carica sul tetto preoccupandosi di legarlo e subito dopo mi fa il biglietto.   Mi conferma quasi sette ore di viaggio.
Salgo e mi siedo di nuovo vicino al finestrino. Scelta quanto mai felice perché da lì potrò osservare il paesaggio.
Altri viaggiatori stanno occupando gli altri posti.L’autobus non è ancora pieno ma si parte. Non c’è un orario preciso. La precisione europea qui svanisce.
La strada è sterrata, le sospensioni non esistono. Arriverò dopo 7 ore con le ossa indolenzite. Eros Ramazzotti che canta in spagnolo riempie subito l’atmosfera.
Incontriamo diversi villaggi sperduti nei boschi da dove scendono i contadini. Stanno sul ciglio della strada e se trovano posto salgono sull’autobus,riempiendolo all’inverosimile. Il bigliettaio, il tipo di prima che ha caricato il mio zaino, fatica a passare tra i passeggeri per reclamare il biglietto. Ma nessuno si lamenta. I contadini guatemaltechi sono le persone più tranquille che abbia mai conosciuto. Si animano solo ai crocevia quando l’autobus si ferma per scaricare e caricare altra gente. Dei venditori improvvisati salgono per quei pochi minuti sufficienti per offrire alimenti e bevande.
Ma dopo qualche ora di viaggio, neanche la musica non anima più nessuno. Alcuni passeggeri si sono addormentati. Io resto vigile. Mi piace osservare la strada che corre lungo uno strapiombo. I guardrail qui non esistono. Una certa inquietudine mi assale ma poi mi dico che mi trovo in uno dei paesi più emozionanti al mondo e niente di brutto mi potrà accadere. Sono già successe cose tremende qui negli anni passati. Il Guatemala ha ora bisogno di tranquillità e serenità.
Mi guardo intorno ed osservo i visi dei contadini: sono visi millenari che portano su di sé le tracce di un passato glorioso. I tratti spigolosi rendono l’idea di un popolo che non ha mai rinunciato alla propria dignità nonostante i soprusi che ha dovuto subire.
Fa caldo. Ovviamente l’aria condizionata non esiste sull’autobus, uno scuolabus americano sbarcato quidopo essere stato dismesso dagli Stati Uniti. Ho sentito dire che il Messico è la pattumiera del Nord America, nemmeno il Guatemala scherza. Eppure è tutto pulito e a posto. I campi coltivati a maisrendono il paesaggio ordinato e gli alberi da frutta lo colorano.
L’autobus prosegue velocemente in mezzo alle montagne. L’autista parla e scherza con il bigliettaio, sempre più magro e brizzolato. Al prossimo crocevia, mi dice, dovrò scendere e cambiare autobus. Questo va dritto a Quetzaltenango. Quello che prenderò io andrà a Città del Guatemala.
Il trasbordo è veloce ed efficiente. Il bigliettaio sale sul tetto dell’autobus e mi dà, anzi mi lancia, lo zaino. Ed io salgo sull’altro che mi sta aspettando. Qui non ci sono più turisti ma gente del luogo che va in città. Stesse facce, stessi visi. I contadini sono un po’ più eleganti: gli uomini in pantaloni scuri e camicia bianca, le donne in gonne colorate.
La strada migliora velocemente e si comincia a vedere l’asfalto. Niente più scossoni. Oddio, mi sbagliavo.
Un contadino, appisolato sulla mia spalla, si sveglia ad un sobbalzo. Si guarda intorno un po’ stranitoMichiede timidamente da dove vengo. Gli rispondo “Dall’Italia”. “E te ne vai sola per il Guatemala?”, mi chiede. Ed io “Sì, sola”.

Verso Tapachula

San Cristóbal de las Casas se ne sta arroccata sulla montagna, fiera come i suoi abitanti. Le case dai muri colorati nascondono patìos tranquilli che ti coccolano dopo una giornata passata a visitare mercatini. Ogni settimana gli indigeni vengono dai paesi vicini ed espongono le loro mercanzie. E’ un mondo arcaico di colori e odori. Il tempo sembra che si sia fermato e questo non mi dispiace.
Stanotte ho sentito degli spari, almeno credo. Sarà stata la mia immaginazione oppure l’eccitazione per il viaggio che mi aspetta domani. Domani è già oggi. Sono le 7, lo zaino è pronto, i documenti a posto. Pago la camera e scendo in strada. Ha piovuto stanotte e le strade lastricate di sassi brillano al primo sole che sta nascendo timido in mezzo alla nebbiolina. Alle 7.30 salgo sull’autobus che mi porterà a Tapachula, al confine con il Guatemala.
I passeggeri sono gente del luogo e turisti. Nessuno parla. Siamo ancora un po’ tutti addormentati. L’autobus parte con qualche minuto di ritardo. Saranno tre ore di discesa lungo tornanti a non finire. La nebbiolina ormai si sta diradando e il giorno esplode piano, con quella lentezza che ho imparato ad accettare in questi paesi del Sud del mondo.
L’autobus è confortevole ma non lussuoso altrimenti la gente del luogo non potrebbe permettersi il biglietto. Non mi sono mai curata di questi aspetti durante i miei viaggi. L’importante è partire, andare e visitare nuovi posti. Stasera, se Dio vuole, sarò a Città del Guatemala. Dopo un paio d’ore, l’autobus si anima. Gruppi di turisti provenienti per lo più dall’Europa hanno aperto le loro cartine e stanno già pregustando le loro mete finali. La ragazza che siede vicino a me fa parte di uno di questi gruppi. Viene dalla Francia e la sua meta finale è il lago di Atitlán. Già il nome evoca un’atmosfera magica ed antica. Ci andrò anch’io ma prima mi fermerò nella capitale guatemalteca.
Per fortuna che ho scelto di sedermi vicino al finestrino. La natura qui è rigogliosa nell’umidità della foresta pluviale. Acqua, acqua, acqua. Acqua limpida, fredda che fa del Chiapas un posto appetibile per l’economia messicana. Ma il progresso ai Lacandoni non interessa. E li capisco, godendo della tranquillità di questi luoghi.
Ma è tempo ormai di raccogliere le mie cose. La frontiera con il Guatemala è a pochi chilometri. L’autobus ci lascia all’ufficio emigrazione messicano da dove ci spostiamo con un taxi collettivo. I miei compagni di viaggio ora sono spagnoli.
L’impatto con la frontiera è quanto maicinematografico: una sbarra divide i due paesi ma la gente  e le abitudini sono uguali. Gente che cambia la valuta, che ti vende da mangiare, bambini che chiedono l’elemosina e galline in quantità industriale che sgambettano qua e là.
Nell’ufficio immigrazione un impiegato mi chiede il passaporto e scrive i miei dati su un foglio. Usa ancora una macchina da scrivere modello Olivetti 32. Sorrido. Io sono abituata ai terminali che non funzionano mai quando servono. L’impiegato mi sorride e mi dice “Bienvenida Señorita Daniela”. Sono ufficialmente in Guatemala e so già che me ne innamorerò.